Riflessioni sugli indignados

da Militant-blog.org

 

Sulla scorta del bell’articolo di Alain Touraine (sebbene pieno di cliché para-democratici) pubblicato su Repubblica qualche giorno fa, vogliamo provare a dire due parole anche noi su questa ondata indignata che ha attraversato alcuni paesi europei e nordafricani. Provare a sistematizzare un discorso che abbiamo molte volte accennato nel corso di questi mesi, nel susseguirsi delle varie vicende politiche e delle numerose proteste che si sono alternate nelle capitali di mezza Europa, ma mai affrontato nel suo complesso. Ovviamente, siamo ancora dentro le mobilitazioni, ne siamo troppo vicini cronologicamente e troppo toccati politicamente per avere quella visione distaccata e lucida che sarebbe necessaria. Però, dopo più di un anno di spinta politica apparentemente omogenea ed effettivamente diffusa, gli elementi in campo sono già abbastanza.

 

I media e le proteste

 

Innanzitutto che queste proteste siano omogenee politicamente è una lettura mediatica che andrebbe contestata. Almeno in Europa, i cosiddetti indignadosesistono solo in Spagna. In Grecia la protesta va avanti da anni, e solo parzialmente la crisi e il vortice di merda in cui è entrata sta influenzando un livello di protesta che era già altissimo da molto tempo. Soprattutto, le proteste greche non hanno nulla a che vedere con le rivendicazioni spagnole, italiane, inglesi o francesi. Là esiste un movimento strutturato e politicizzato che non ha paragoni col resto del continente, in cui la dialettica politica dell’opposizione è fra quattro partiti comunisti e il movimento anarchico. E’ evidentemente una situazione sui generis, non paragonabile.

Il paragone regge poco anche con i vari movimenti italiani di protesta, soprattutto con quello del popolo viola e dei grillini, al quale molte volte è stato accomunato. Una lettura distorta della situazione che abbiamo subìto in questi mesi da giornali, tv e internet, ci ha portato a credere che le rivendicazioni, la spinta e gli ideali fossero gli stessi. Niente di più falso. Questi sono movimenti d’opinione che chiedono più democrazia all’interno delle istituzioni, meno privilegi di casta e più diritti civili; non che non siano presenti anche queste rivendicazioni all’interno delle proteste spagnole, ma una lettura tossica della situazione in questi mesi ci ha portato a sovrapporle identificandole. E invece, nelle proteste spagnole il dato politico egemone è la richieste di un cambiamento economico. E’ vero, anche gli indignados chiedono un parlamento più pulito, senza pregiudicati, con maggiore chiarezza e visibilità nel processo decisionale e meno privilegi per i governanti, ma è un discorso che fa da supporto ad una richiesta di progresso economico e di redistribuzione della ricchezza che è il vero cuore della protesta. Gli spagnoli hanno preso a protestare quando la crisi economica ha iniziato a farsi sentire, in Spagna più che altrove, vista la natura distorta e sostanzialmente finanziaria della propria crescita negli anni precedenti (come l’Irlanda, ma non come l’Italia). Gli indignados, in questi mesi, non hanno mai confuso il metodo, cioè un processo decisionale più aperto e pulito, col merito, che è rimasto quello di richiedere un cambiamento economico del paese. Gli spagnoli stanno protestando contro il capitalismo che li ha portati alla crisi. Questo non è mai indubbio nelle proteste, se si avesse il tempo di sentire le interviste o leggere i cartelli e gli striscioni che veicolano le parole d’ordine delle manifestazioni, nonché i documenti che questi hanno prodotto. E’ un fatto decisivo, visto che in Italia non è mai stato accennato, nelle varie proteste “democratiche” di questi anni, ad una svolta economica del paese. E non perché la gente non la voglia, visto il chiaro risultato dei referendum anti-liberisti. Ma non la vogliono quei partiti e quelle associazioni (e quei sindacati) che hanno organizzato e diretto quelle proteste, o che ci si sono infilati raccogliendo e mediando la spinta dal basso che le animava.

Dunque, il discorso è un po’ questo: qualsiasi cosa si muova in Europa o nel nord Africa, il regime mediatico italiano cerca di riportarlo sotto un’unica spinta politica, che in realtà non esiste. Ci ha fatto credere che esista una pressione europea contro i parlamenti e contro la politica, quando queste semmai sono le rivendicazioni tipiche di alcune proteste italiane, non certo di quelle spagnole, e mai e poi mai di quelle greche o di quelle londinesi di Aprile-Maggio. C’è una spiegazione a tutto questo, ma la vedremo dopo.

Anche perché gli indignados colgono lo spunto ideale dal bel pamphlet di Stefan Hessel (bello perché scritto da un partigiano novantenne ancora giustamente incazzato, che rivendica il diritto di non aver lottato e rischiato la vita per questa merda di “democrazia” neoliberista), il pamphlet che si intitola, appunto,Indignatevi! Le loro radici le ritrovano chiaramente nella resistenza, non solo come movimento di liberazione ma anche come momento rivoluzionario.

Anche il fatto che questi indignados siano così forti in Spagna dovrebbe rendere chiaro che i diritti civili c’entrano poco in tutto il discorso. E infatti, nonostante la Spagna sia il paese europeo più avanzato in tema di diritti civili e Zapatero il campione europeo della sinistra “borghese”, agli indignados non gliene è importato una mazza. Non si capisce bene cosa farci con questi diritti civili, senza il cambiamento economico, e questo gli spagnoli lo hanno capito molto bene. E infatti, il vero nemico e obiettivo di queste manifestazioni era proprio Zapatero e il suo governo, che è stato attaccato in quanto governo di neoliberisti. Anche questo è un aspetto che i media italiani tendono puntualmente ad oscurare, cercando di far rientrare in un unico calderone proteste che più diverse non potrebbero essere.

Dunque, la lettura degli organi di informazione deforma la realtà. Non c’è alcuna spinta omogenea, ma diverse proteste nei vari contesti mediterranei. Qualcuno tenta una reductio ad unum, più per fini politici che per fini analitici. E se politicamente ci può far comodo parlare di ondate di proteste dalla Spagna alla Grecia, dalla Francia all’Egitto, nella realtà le cose stanno un po’ diversamente. Anche perché chi opera questa reductio solitamente lo fa per secondi fini, e cioè prendendo la protesta più moderata e la generalizza, eliminando ogni aspetto anti-sistema delle manifestazioni per focalizzare l’opinione pubblica solo su quelle rivendicazioni desiderabili dal sistema stesso. E’ un gioco nel quale non dobbiamo cadere, ma non è facile, e infatti in questi mesi troppi compagni ci sono cascati.

Le proteste contro i partiti e il ruolo dei social network

 

Una delle cose che accomuna effettivamente le manifestazioni di questi mesi è il rifiuto di un certo tipo di politica, nonché il netto rigetto dell’organizzazione partitica quale strumento per governare la democrazia. Insomma, non solo la politica non è vista più di buon occhio, anche se ci si mobilita politicamente per realizzare degli obiettivi, ma di certo il partito in quanto tale non è più lo strumento che viene ritenuto più efficace per veicolare i propri messaggi e per organizzarsi. Non è una protesta contro i partiti che ci governano o che ci hanno tradito dagli scranni dell’opposizione, ma è una protesta generale contro il modello-partito (questo vale ovunque meno che in Grecia). Questo è direttamente connesso al ruolo essenziale che hanno assunto Internet, i blog e i social network come fattore organizzativo e mobilitante delle proteste stesse.

In Europa come nel Maghreb, sembrerebbe essere questo il ruolo ormai necessariodei blog e dei social network, cioè strumenti indispensabili alle mobilitazioni. Anche questa è una lettura che andrebbe un pochino approfondita, anche se non del tutto falsa. Effettivamente, un dato comune di tutte le mobilitazione è l’uso della rete come elemento organizzativo delle mobilitazioni. Questo però ha una sua spiegazione proprio in ciò che dicevamo prima, sulla crisi della politica e dei suoi agenti.  Non essendoci più partiti capaci di stare efficacemente nelle proteste, e non avendo più intenzione di organizzarsi su quel modello, chi manifesta deve comunque darsi una sua organizzazione. Anche solo per chiamare le mobilitazioni, discutere, confrontarsi. Questo ruolo è stato assunto dai blog e dai social network. Solo che mentre in Spagna Internet rimane un mezzo, anzi sempre più il mezzo, per organizzarsi e ovviare a tutti quei problemi connessi all’assenza di una struttura forte e organizzativa (che è un limite, sia chiaro), negli altri paesi e soprattutto in Italia (in questo molto simile al nord Africa), Internet viene assunto come valore in sé. Qui si parla di democrazia dei social network, di piattaforma democratica, di strumento rivoluzionario. Insomma, come in altre circostanze, il mezzo viene confuso con l’obiettivo, e quando questo avviene in genere si producono mostri. Ogni cosa che viene dalla rete viene subito assunta come interessante, o quantomeno innovativa, dando alla rete un ruolo che potrebbe avere ma sarebbe meglio che non abbia. Anche perché da qui alla degenerazione il passo è breve, come dimostrano le decine di manifestazioni e proteste nate sulla scorta del falso rapimento della blogger siriana che in realtà era un professore del Michigan (proteste che hanno portato anche a dei morti…com’era quel proverbio sul battito d’ali che produce una tempesta?). Se la rete serve da supporto organizzativo e strumento di discussione, allora possono essere sfruttate appieno le proprie potenzialità. Però andrebbe sempre trattata come luogo neutro, vagliando sempre attentamente ciò che circola, ma soprattutto avendo sempre un riscontro nella vita reale. In Italia e nel nord Africa, invece, la rete ha assunto un ruolo pericolosamente protagonista, creando un sistema di valori in sé. Mentre nel nord Africa questo può essere spiegato col tentativo da parte delle giovani generazioni di uniformarsi a canoni europei da loro tanto agognati, confondendo un metodo con il merito (senza contare l’effettivo utilizzo di questi strumenti da parte della popolazione, notevolmente – e volutamente – sovrastimato), in Italia siamo di fronte alla solita manipolazione ideologica di uno strumento in sé per sé indefinito. Un po’ come le rivolte generazionali tanto care ai neofascisti. Un giovane può dire cose giuste o sbagliate, ma non ha ragione solo perché “giovane”. Non porta cambiamento o miglioramento solo perché è under 30 o altre simili stronzate. Insomma, è molto più rivoluzionario Stefan Hessel che ha novant’anni che un giovane qualsiasi imbevuto di strane neodottrine scaturite dalla rete o dal capopopolo di turno. Sembra sempre scontato dirlo, ma ogni tanto repetita iuvant.

Parallelamente, Internet è stato creato dal capitale e il capitale è ben felice di vederne sfruttate le sue immense potenzialità. Non è uno strumento rivoluzionario, ma può essere utilizzato in maniera rivoluzionaria se si hanno le capacità e l’intelligenza di sfruttare ciò che il capitale ha creato contro sé stesso. In una società e in un modello di sviluppo che tende all’atomizzazione e all’individualismo, sfruttare Internet per organizzarsi è il danno maggiore che si può fare al capitale stesso. Solo che tutto questo deve rimanere un mezzo, e infatti la grande ondata di partecipazione politica di questi mesi in Europa e nel Maghreb smentisce questi ideologi della rete. Il vero fatto positivo e potenzialmente rivoluzionario è la partecipazione politica, e infatti in Spagna, appena avviata la mobilitazione, il fattore democratico principale sono state le assemblee dei barrios, no i messaggi su Twitter. In Spagna il modello partecipativo è rimasto saldamente l’assemblea popolare, o di quartiere, che mai e poi mai è stata sostituita dalla rete, che infatti ha un altro ruolo e non quello di sostituirsi al confronto dialettico de visu.  Soprattutto, non deve sostituirsi all’azione politica, come invece si augurerebbe una certa lettura data dai soliti noti. La rete ha senso se serve a creare le condizioni per poi fare politica, ma non sostituisce la militanza politica. Questo è quello che vorrebbe il capitale, e infatti è proprio il capitale a incentivare l’uso di Internet. Noi dobbiamo ritorcerglielo contro, utilizzando i social network e i blog quando è opportuno, ma dandogli il valore che hanno e non sopravvalutarli.

Una conclusione o una speranza

 

Nonostante quanto detto nei post precedenti, queste mobilitazioni che hanno caratterizzato la primavera europea e araba continuano a soffrire di evidenti limiti politici che non le fanno mai condizionare la realtà politica dei paesi. Eppure la durata e l’imponenza di certe manifestazioni sarebbero bastate, negli anni settanta, a far cadere governi o a promuovere riforme progressive di ben altro tenore. Anche gli apparenti cambiamenti nel Maghreb sono dovuti più ad una spinta internazionale in favore del cambiamento che alla forza esplicita dei movimenti. Più ad una dichiarazione di Obama che a trenta morti in una manifestazione. E infatti, nonostante in Egitto continuino a prodursi manifestazioni e proteste, il disinteresse internazionale le sta relegando ad una sostanziale inutilità, o quantomeno all’impossibilità di incidere alcunché. Perché tutto questo?

Il passo decisivo fra l’opposizione ai governi esistenti e la proposta di una società diversa è ciò che manca a tutte le mobilitazioni. Sia in quelle più moderate e riformiste, come quelle italiane, sia in quelle più radicali, come possono essere quelle spagnole (o londinesi, o francesi nello scorso autunno).

Il capitalismo, anche in queste proteste, continua a non avere alternative. Manca un progetto di società alternativo, ma soprattutto ne manca uno immediatamente chiaro e spendibile, ed è esattamente il motivo per cui nelle analisi per l’opinione pubblica le sintesi dei media risultano più efficaci delle analisi prodotte dai movimenti stessi, mettendogli in bocca parole e idee che nella realtà non hanno. Una serie di parole d’ordine semplici e immediate, capaci di essere comprese a tutte le fasce della popolazione, capaci di divenire sentire comune non solo per i militanti, ma anche per tutti coloro che assistono alle proteste ma non partecipano. A tutti i lavoratori, a tutta quella maggioranza (o minoranza) silenziosa che possa valutare l’alternativa senza doversi necessariamente leggere decine di saggi politici. La mobilitazione in sé non è l’alternativa. E’ uno strumento. Le assemblee popolari, il processo decisionale dal basso, non costituiscono già l’alternativa. Sono lo strumento (giusto) per proporre il cambiamento, ma se questo manca il metodo utilizzato diviene o inutile o fine a sé stesso. Non basta essere il soggetto del cambiamento per cambiare l’oggetto,cioè la realtà sociale.

Il cogniariato (sic), che è l’anima e il protagonista di queste manifestazioni, è portatore di un insieme di valori e di conoscenze che non sono patrimonio comune della popolazione, e soprattutto non lo sono dei lavoratori dipendenti, che fino a prova contraria rimangono i protagonisti del cambiamento anche se non si attivano politicamente in massa.  Hanno dei bisogni, delle necessità e degli stimoli che non possono essere generalizzati, ma soprattutto parlano un linguaggio che non viene inteso dalla gente. Queste manifestazioni continuano a parlare a sé stesse e a chi fa politica. Lo strumento, per quanto importante, dell’assemblea popolare (per fare un esempio), non risolverà il problema dei lavoro e della disoccupazione se all’interno di questi ritrovi non si parlerà di lavoro e di disoccupazione, di redistribuzione e di lotta politica a chi produce la precarietà. E soprattutto se non si metteranno in pratica queste discussioni con un’attività politica conseguente.

E poi, se tutto ciò che viene espresso non viene sistematizzato in un insieme coerente e generalizzabile di proposte politiche (e di facile comprensione), difficilmente potrà costruire quell’altro mondo possibile per il quale lottiamo. Insomma, bisogna iniziare, secondo noi, a immaginare l’alternativa, a renderla appetibile e direttamente realizzabile. Bisogna tornare a fare delle proposte, non solo a scagliarci contro questo modello di sviluppo (là dove avviene..). Ha poco senso, ormai, parlare ad esempio di beni comuni se manca il progetto concreto  di come renderli comuni. Di capire quale Stato, con quale governo, con quali proposte e scelte politiche verranno realizzati i nostri obiettivi. Far capire se siamo davvero rivoluzionari, o semplicemente dei riformisti radicali. Se cerchiamo di preparare un diverso modello di sviluppo sociale ed economico, o se semplicemente il nostro obiettivo è fungere da lobbie che cerca di condizionare la politica “ufficiale”. Sono tutte domande che ancora non hanno trovato una risposta, e questa incertezza sta determinando l’impasse di questi mesi e il continuo rincorrersi di movimenti che nascono e muoiono senza aver prodotto nella società quei cambiamenti che invece avrebbero la forza di produrre. Quanti movimenti abbiamo attraversato, quante onde ci avrebbero dovuto travolgere e invece stiamo messi come e peggio di prima (lavoratori, studenti, precari, immigrati, donne, omosessuali, ecc..)? Qualcosa, evidentemente, dobbiamo cambiare, e scaricare tutte le colpe su una realtà oggettiva che ti impedisce di influire politicamente non è l’atteggiamento che ci farà fare il salto di qualità.