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“Europa a due velocità”: dalla colonizzazione produttiva alla dipendenza istituzionale?

  La boutade sull’Europa a due velocità ha provocato il coro trasversale della politica nazionale: “è già così”, ci ricorda Angelo Angelino Alfano; “era ora”, rimpalla Enrico staisereno Letta. Eppure l’avventata dichiarazione della Merkel contiene un fondo destabilizzante per l’attuale conformazione europeista. Cosa vuol dire, concretamente, un’“Europa a due velocità”? Troppe cose non sono chiare: 1) è l’“Europa” ad essere immaginata a velocità diseguali, o l’Unione europea? Nel primo caso, infatti, è davvero già così (come da immagine a corredo dell’articolo), ma è l’equivoco ideologico su cui si fonda ogni retorica europeista: scambiare una costruzione politico-economica, la Ue, per un fatto naturale, il continente europeo. L’Europa è tutt’altro che un territorio omologato: ci sono Stati nella Ue e Stati fuori dalla Ue; ci sono Stati nella Ue che hanno l’Euro e Stati nella Ue che non adottano la moneta unica; ci sono Stati dentro la Ue e dentro l’unione doganale di Schengen e Stati che non l’adottano; e così via. L’Europa e la Ue non sono entità sovrapposte, e immaginarne “due” a velocità differenti significherebbe unicamente fotografare una realtà dei fatti sconosciuta solo alla sinistra europeista, che immagina la lotta alla Ue come “lotta all’Europa”. Dunque, quando parla di “Europa a due velocità” la Merkel intende un’Unione europea a due velocità. E’ bene essere chiari. Ma qui le cose si complicano, perché, 2) l’Unione europea “di serie b” condividerebbe la stessa moneta unica della Ue “di serie a”? Questo è il fatto cruciale, perché se così non fosse ci sarebbe di fatto lo scioglimento del vincolo monetario per l’Europa “inferiore”, dunque la fine dell’Unione europea per quegli Stati espulsi dal processo europeista. Dunque non ci sarebbe nessuna Ue di serie b, ma un’unica Unione europea ristretta ai suoi membri economicamente più stabili. Se, al contrario, la Ue a due velocità adottasse comunque la stessa moneta, dove sarebbe la discontinuità dei “cerchi concentrici”? Forse però la Merkel sta pensando a una riscrittura complessiva dei trattati, dai quali verrebbe escluso un gruppo di Stati membri non idonei agli standard finanziari degli Stati di serie a. Però, in tal caso, sorgono altre questioni: 3) i paesi sarebbero esclusi dai trattati in vigore, magari rivisti, o sarebbero esclusi dai trattati futuri (cioè gli accordi militari e sui migranti)? Perché nel primo caso ci troveremmo nella fantasiosa situazione per cui alcuni Stati sarebbero obbligati a rispettare regole, procedure e sanzioni di un’Unione di cui non fanno parte, sancendo di fatto la colonizzazione degli stessi. Una dipendenza talmente smaccata che porterebbe anche la genuflessa Italia a ribellarsi a uno stato di sottomissione surreale. Nel secondo caso, si riproporrebbe la situazione rilevata all’inizio: è già così, di fatto e di diritto, e quindi dov’è la discontinuità? Ma queste e altre domande non fanno i conti con l’Unione europea come entità produttiva. Come detto altre volte, e come ormai addirittura fatto assodato, la Ue e l’Euro così organizzati convengono (unicamente) alla Germania. In regime di tassi di cambio fissi legati a una moneta unica, la produzione convergerà nel territorio a maggiore capacità produttiva. E’ quello che è avvenuto da un ventennio a questa parte, dove la Germania ha vampirizzato le industrie degli altri paesi membri della Ue proprio perché poteva contare su di una moneta deprezzata e sull’impossibilità dei paesi concorrenti di rendere concorrente – appunto – la propria produzione attraverso svalutazioni competitive. Risulta difficile, per non dire impossibile, immaginare la struttura economica tedesca che cambi volontariamente questo bengodi produttivo. Un’Unione europea composta da Germania, Olanda e Francia vedrebbe la moneta adottata schizzare letteralmente verso l’alto, riducendo la competitività tedesca e distruggendo definitivamente quella francese. Certo, si potrebbe obiettare che la Cina, ad esempio, ha una straordinaria competitività economica in presenza di un Renminbi altamente deprezzato. Ma nel caso cinese la Banca centrale è sottoposta alla direzione politica del Ministero del tesoro, e quindi le scelte finanziarie sono sottomesse a un vincolo politico. La Bce, al contrario, è “libera” da condizionamenti politici, non ha alcun legame organico con le volontà degli Stati membri, e dunque non può, almeno legalmente, sostenere artificialmente la competitività delle economie europee attraverso svalutazioni politiche. Quindi il giochetto tedesco si infrangerebbe contro i postulati che proprio la politica liberista teutonica ha impresso alla costruzione europeista. L’Euro della Ue di serie a sarebbe un super Euro, e questo è l’incubo della Merkel. A meno che, lo scenario non sia in mutamento e la disintegrazione produttiva dei competitors venga giudicata definitiva o comunque ad un accettabile livello di inferiorità strutturale. Sono scenari ipotetici, che sicuramente vengono discussi all’interno dei gruppi dirigenti tedeschi, ma che non sembrano aver sedimentato una coscienza stabile e definitiva sulla strada da percorrere. Proprio per questo nei prossimi giorni approfondiremo la questione con l’aiuto di professionalità in grado di discernere il chiacchiericcio, la boutade elettoralistica, dal contenuto di verità che sottendono le parole della Merkel. In ogni caso, come abbiamo sentito dire da Tremonti recentemente, Brexit e vittoria di Trump “hanno rimesso la storia in cammino”. Tradotto nel caso in questione, significa che la Germania non resterà spettatrice di uno scenario che potrebbe crollare sotto i propri piedi. Motivo per cui anche la Ue giocherà la propria partita nello scontro sempre meno gestibile tra establishment e populismi.

Il job’s act “condiviso”

Susanna Camusso e Matteo Renzi

Susanna Camusso e Matteo Renzi

Cgil, Cisl e Uil, la cui unità di azione è ritornata in auge da parecchi mesi, hanno firmato con Confindustria una proposta da presentare al Governo sulle politiche attive di ricollocazione. In realtà, si tratta di una proposta-bozza applicativa del job’s act del Governo Renzi riguardo la disciplina dei licenziamenti e l’uso degli ammortizzatori sociali. In sostanza la controriforma del lavoro prevede il passaggio dagli ammortizzatori passivi a quelli attivi: verrà abolita l’indennità di mobilità che accompagnava i lavoratori verso la pensione e verranno valorizzati i percorsi di formazione attivi per il riorientamento dei lavoratori. La proposta sindacal-padronale si inserisce in questo quadro proponendo una serie di norme che prevedono:

  1. La possibilità di una conciliazione in denaro in cui il lavoratore si autolicenzia e può entrare in un percorso di formazione finanziato con i risparmi dovuti alla sua scelta
  2. Il finanziamento di un percorso di formazione per la ricollocazione finanziato anche attraverso i fondi europei gestito direttamente da sindacati e confindustria
  3. Una deroga alla cessazione dello strumento della mobilità nel caso di ristrutturazioni aziendali “complesse” che prevedano l’avvio di nuove attività lavorative

Sostanzialmente, con questo testo, i sindacati prendono atto che il job’s act è legge e cercano di valorizzarne il merito. Ovviamente accettando la disciplina dei licenziamenti e cercando di ricavare qualcosa dai corsi di formazione che sono tra i nuovi strumenti di cui il sindacato si è dotato trasformandosi da strumento di difesa dei lavoratori in ente bilaterale fornitore di servizi. Tutto questo in linea con il fatto di non aver lottato per nulla contro il job’s act il quale tra l’altro (come i sindacati e i padroni sanno bene) non crea nessun posto di lavoro in più e serve solo per aumentare a dismisura la precarietà. D’altra parte sarebbe curioso aspettarsi che Cgil, Cisl e Uil riprendano ora una lotta che si sono ben guardati dal fare quando sarebbe stato necessario. Non hanno mosso un dito al momento della discussione sul job’s act e ora cercano di ricavare qualcosa con una proposta che per loro significa soldi e possibilità di continuare a esistere, per i lavoratori è una presa in giro. Non si capisce proprio perché i processi di formazione dovrebbero ricollocare qualcuno visto che si continuano a delocalizzare imprese, vengono privatizzati i servizi pubblici e gli unici investimenti sono a favore delle banche. Evidentemente i sindacati confederali pensano (ma sarebbe meglio dire che fanno finta di credere) che il problema sia una non sufficiente preparazione dei lavoratori. Leggi come il job’s act sono attive o in via di approvazione in tutta Europa: la loi du travail francese è l’omologo della legge italiana. Chi dovrebbe difendere i lavoratori dovrebbe capire il segno di queste ristrutturazioni imposte dall’Unione Europea: c’è poco da trattare su ricollocamenti, formazione e strumenti attivi o passivi, in realtà si tratta di leggi atte ad aumentare la forza dei padroni e a diminuire le tutele dei lavoratori. Questo è il segno della ristrutturazione neoliberista che l’UE ha imposto ai lavoratori europei, in particolare a quelli dei paesi del sud. Il PD, al quale si fornisce un testo da discutere o approvare, è l’esecutore di queste politiche criminali. I sindacati confederali lo sostengono di fatto, evitando mobilitazioni e provando a trattare sulle spalle di chi lavora. Fornendogli, direttamente o indirettamente, sponda sindacale. Continuando a sostenerne di fatto le politiche. Il sindacato confederale è complice del disastro. Questo testo di accordo ne è l’ennesima conferma.

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